logoProvinciaPG(UNWEB) Perugia - “Se ne parla diffusamente in queste lunghe settimane – ha detto Giuliana Astarita Consigliera provincia di parità - di emergenza sanitaria: finalmente il nostro bel Paese sta scoprendo tutti i benefici, economici e non, dello smart working. Ma è proprio così? Stando alle testimonianze che è possibile raccogliere in questi giorni di emergenza sanitaria, ne dubito fortemente.


Occorre, a mio avviso, in primo luogo fare chiarezza sul concetto di smart working, troppo spesso confuso e sovrapposto a pratiche per certi versi simili come il telelavoro e il lavoro da remoto, ma in realtà molto diverse.
Fare smart working non vuol dire semplicemente "lavorare da casa" e va oltre il concetto di telelavoro. Se infatti quest'ultimo si configura come una vera e propria forma contrattuale, lo smart working rappresenta un accordo tra lavoratore e organizzazione all’interno del rapporto di lavoro subordinato. Le due forme di remote working si differenziano soprattutto in termini di flessibilità e autonomia. Nello smart working, luoghi e orari di lavoro sono scelti liberamente dal lavoratore. Le regole imposte al telelavoro sono invece abbastanza rigide: orari, luoghi e strumenti tecnologici sono prestabiliti e rispecchiano lo stesso assetto organizzativo utilizzato nel luogo di lavoro.
Lo smart working, come definito con Legge n. 81/2017, è, dunque, una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall'assenza di vincoli orari o spaziali e un'organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività.
È infatti dimostrato un aumento della produttività, nella misura del 4% circa, in caso di ricorso allo smart working ed una maggiore soddisfazione del lavoratore per il bilanciamento tra vita privata e lavoro, in verità maggiore per le donne rispetto agli uomini.
La flessibilità aumenta le possibilità di accrescere il proprio reddito in nome della maggiore produttività garantita, ma di questo approfittano più gli uomini che le donne. Il motivo risiede nelle diverse motivazioni per cui lavoratrici e lavoratori usano il lavoro agile. Le prime lo fanno soprattutto per venire incontro a esigenze della famiglia, tanto che non pretendono compensi aggiuntivi per i migliori risultati garantiti (soprattutto le donne con figli arrivano a rinunciare al compenso del lavoro straordinario pur di avere un po’ di flessibilità in più). Gli uomini, invece, utilizzano il lavoro agile nell’ambito di una strategia personale di avanzamento di carriera.
Ebbene, nell'ambito delle prime misure adottate dal Governo per il contenimento e la gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19, il Presidente del Consiglio dei Ministri è intervenuto sulle modalità di accesso allo smart working, prevedendo una diversa versione di smart working, estesa per l’intera durata dello stato di emergenza, ad ogni tipo di lavoro subordinato su tutto il territorio nazionale, anche in assenza degli accordi individuali previsti dalla relativa normativa, al fine di evitare gli spostamenti e contenere i contagi.
È questa la ragione per la quale non può parlarsi di smart working.
In assenza di un progetto e di una libera scelta condivisa delle parti in gioco, lavoratrici e lavoratori si sono trovati costretti in casa a sperimentare una modalità di esecuzione del lavoro che di smart ha veramente ben poco. Non hanno possibilità di scegliere dove, come e quando, lavorare, ma devono lavorare per forza da casa, condividendo spazi che non sono per tutti uguali, e al contempo occupandosi della casa e dei figli, prigionieri anche loro e anche loro piccoli lavoratori “da remoto”, con orari ed impegni specifici che necessitano dell’intervento dei genitori, quanto meno per gli infradodicenni. Un'occasione, certo, per favorire la maggiore partecipazione degli uomini alla gestione delle necessità familiari ma che si sta rilevando, invece, come una trappola per le donne ed una vera e propria prigionia per le mamme single (l’86% dei genitori single), che ora non possono fare affidamento neanche sull’aiuto dei nonni, soggetti più fragili che abbiamo il dovere di tutelare. Ci si trova dunque a lavorare (per il proprio datore di lavoro) nelle prime ore del giorno, prima di preparare la colazione ai bambini, per poi dedicarsi a loro, per farli studiare e ridere, nonostante la prigionia. Ma poi c’è il bucato, la casa da tenere pulita, la cucina e la sera, dopo averli messi a letto, trovare le forze per lavorare...ancora.
Non più un attimo per sé, per pensare o per non pensare a niente. Cosa c’è di smart in queste modalità di lavoro? Nulla. Siamo arrivati impreparati – ha concluso Giuliana Astarita - allo smart working e prenderne consapevolezza è il primo passo per fare tesoro dell’esperienza di queste settimane, per poter dopo, perché ci sarà un dopo, praticare realmente ed in maniera diffusa il “lavoro agile”, a beneficio delle lavoratrici e dei lavoratori, delle imprese, delle famiglie e dell’ambiente”.


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