archivio sito Renato Curi1(UNWEB) A Perugia, il 30 ottobre non è una data come le altre. Da quarantadue anni, infatti, in questo giorno cade la ricorrenza di un evento tragico per tutto il mondo del calcio. Al 5' della ripresa di quel Perugia-Juventus della stagione 1977-'78, su un campo bagnato da una pioggia moderata ma insistente, Renato Curi, ventiquattrenne centrocampista del gruppo guidato da Ilario Castagner, si accasciò improvvisamente di fronte a compagni di squadra ed avversari sgomenti. I sanitari si affrettarono a soccorrere il giocatore, senza nemmeno immaginare che quelli sarebbero stati i suoi ultimi respiri, malgrado i reiterati tentativi di ossigenarlo nella corsa disperata verso il Policlinico.

La partita proseguì in un clima surreale, i giocatori in campo e i tifosi sugli spalti non riuscivano ad avere notizie sulla sorte del beniamino biancorosso nemmeno attraverso le vecchie radioline, stavolta incollate all'orecchio non per conoscere i risultati dagli altri campi ma per cercare di carpire qualche aggiornamento sull'improvviso malore di Renato. Purtroppo, subito dopo il fischio finale, l'annuncio ufficiale del decesso spezzò ogni speranza. Le gocce della pioggia battente, che proseguì anche il giorno successivo, si trasformarono in lacrime per una comunità intera: la squadra, la società e l'intera città, che da tre anni aveva "adottato" quel generoso brevilineo, come lo descrisse Gianni Brera in un'intervista con Mario Mariano.

Cresciuto nelle giovanili del Giulianova, Renato Curi arrivò a Como nel 1973, dove conobbe il collega di reparto Franco Vannini. Entrambi approdarono a Perugia l'anno successivo, quando la promettente squadra di Castagner, dopo sette soddisfacenti stagioni consecutive in Serie B, tentò, riuscendovi, l'assalto alla Serie A. Protagonista della storica promozione del 1975, Renato Curi stava costruendo, passo dopo passo, una carriera importante, mettendosi in luce sul proscenio più importante del calcio italiano con numerosi assist e alcune reti pesanti. Su tutte, quella che il 16 maggio 1976 tolse alla Juventus uno scudetto quasi certo consentendo al Torino di superare in classifica gli storici rivali cittadini.

Dopo la sua tragica scomparsa, il Comune di Perugia, assecondando le volontà della piazza e della società, dedicò a Renato l'intitolazione dello stadio, costruito appena due anni prima dalla Sicel di Spartaco Ghini per dare alla squadra e ai tifosi un impianto nuovo e moderno dove poter disputare la sua prima stagione di Serie A. Non fu un particolare da poco perché assegnare il nome della struttura all'atleta ha permesso ai tifosi e gli appassionati, non solo perugini, di mantenere intatta, generazione dopo generazione, la memoria di un calciatore che, non avendo mai militato nelle file di una squadra metropolitana, avrebbe potuto perdersi nel corso degli anni, restando confinata in una sola città o, al massimo, in una sola generazione. Invece no. La straordinaria storia di Renato Curi, sia come uomo che come professionista, è ancora adesso, quarantatre anni dopo, un patrimonio condiviso dello sport italiano. I tifosi nati dopo quella stagione, o troppo piccoli per poterne avere un ricordo nitido, continuano ad intonare cori e ad esibire striscioni per celebrarne la memoria ogni anno, come il testimone di una staffetta senza fine.

Oggi purtroppo la pandemia, oltre a mietere nuovi malati e vittime, che continuano ad aggiornare il drammatico bollettino quotidiano delle nostre strutture sanitarie, impedirà ai tifosi di ricordare il loro eterno beniamino con la consueta messa di suffragio nei pressi dello stadio. Dispiace ovviamente ma il ricordo, quando è vero e sentito, può fare anche a meno di una cerimonia.

Qualche anno fa, nell'ambito di un concorso grafico indetto per arredare il nuovo Museo del Perugia, il giovane artista Cristiano Giuseppe Schiavolini ha realizzato Una parete per la storia, opera toccante e suggestiva che ritrae un gigantesco Renato Curi seduto, come una divinità del Pantheon greco o dell'Asgard norreno, sopra le colline del Monte Pulito, con lo sguardo rivolto verso lo stadio a valle e l'acropoli del centro storico sullo sfondo. Ecco, a noi piace immaginarlo così, con la sua maglietta rossa numero 8, i suoi calzoncini bianchi e le sue scarpette, allenarsi su e giù per il campo in settimana e sbracciarsi, durante la partita, per suggerire qualche mossa ai tanti giocatori scesi in campo con la stessa casacca in questi quarantatre lunghi anni. Nel nostro cuore, Renato non ha mai smesso di correre.

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia