(ASI) Con la scomparsa di Luciano Gaucci non se ne va soltanto un pezzo importante della storia del Perugia Calcio ma anche dell’adolescenza o della gioventù di tanti tifosi che, ancora oggi, assiepano gli spalti del “Renato Curi” sperando che un giorno la squadra possa tornare a ripetere le imprese sportive compiute sotto la gestione del vulcanico presidente romano tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila.
Da poche settimane, in un ritrovato clima di entusiasmo generalizzato, è tornato sulla panchina dei grifoni proprio Serse Cosmi, condottiero di quella formazione che, tra il 2000 e il 2004, mise in difficoltà alcune tra le squadre più forti d’Italia (e del mondo), fino a raggiungere la semifinale di Coppa Italia 2002-’03, dove il Perugia, dopo aver eliminato la Juventus, fu superato di misura dal Milan a San Siro sfiorando l’impresa, e gli ottavi di finale di Coppa UEFA 2003-’04, dove fu battuto soltanto nella gara di ritorno dal PSV Eindhoven di Robben, Kezman e Van Bommel, al termine di un lungo cammino iniziato in estate con la Coppa Intertoto, vinta sul campo del Wolfsburg.
Fu quello il punto più alto raggiunto dalla gestione Gaucci a Perugia. Pochi mesi dopo, complice anche una serie impressionante di sviste arbitrali sfavorevoli durante la stagione, la squadra biancorossa retrocedette, uscendo miseramente sconfitta dallo spareggio contro la Fiorentina in una drammatica ed inedita sfida che mise di fronte la quartultima di Serie A contro la sesta di Serie B per un posto nella massima categoria. Furono i viola ad avere la meglio nel doppio confronto, centrando il ritorno in Serie A dopo il fallimento di due anni prima.
A fine stagione, Serse Cosmi lasciò Perugia per approdare a Genova, sponda rossoblu. La società passò invece in mano al figlio, Alessandro Gaucci, che cercò di costruire una rosa pronta per l’immediato ritorno in Serie A. Dopo un ottimo campionato nel torneo cadetto, con quattro derby vinti tra Ternana e Arezzo, i grifoni, sconfitti nella finale playoff dal Torino, avrebbero dovuto beneficiare del ripescaggio in virtù della retrocessione d’ufficio del Genoa, ma il fallimento della società biancorossa, implacabile, costrinse il Perugia a ripartire dalla Serie C1 attraverso il Lodo Petrucci.
Fu il momento più triste nella storia recente della squadra, in un quadro complessivo dove sembravano fin troppo evidenti scontri e lacerazioni nelle stanze del potere calcistico italiano di allora. Il Perugia apparve, agli occhi di molti, come una vittima designata di una disparità di trattamento che Gaucci, al pari di molti tifosi, ha sempre continuato a percepire come un’ingiustizia anche dopo il patteggiamento, che accettò – suo malgrado – quattro anni dopo per poter finalmente rientrare in Italia da uomo libero.
Quella di Luciano Gaucci a Perugia è una storia dalle mille sfaccettature. Impossibile cercare di riassumerla in poche righe e tanto meno di spiegarla in modo esauriente a chi, complice la giovanissima età, non c’era o era troppo piccolo per ricordarsela. Sempre divisivo, mai del tutto amato o del tutto odiato, il patron dei grifoni si è fatto presto conoscere per il suo stile poco incline ai compromessi o al politicamente corretto, spesso dicendo tutto ciò che pensava anche di fronte alle telecamere nazionali.
Pittoresco, mai finto e di maniera, Gaucci è diventato celebre per le sue strigliate ai giocatori, per i ritiri imposti alla squadra dopo una serie di prestazioni negative, per certe uscite sopra le righe verso alcuni arbitri e colleghi, come la memorabile lite in un dopogara con Vincenzo Matarrese, all’epoca presidente del Bari e fratello di Antonio, presidente della FIGC, con cui Big Luciano aveva senz’altro una faccenda in sospeso dai tempi di quello spareggio contro l’Acireale, vinto regolarmente sul campo ma annullato dalle carte bollate.
Eppure, Gaucci è stato anche il presidente delle grandi intuizioni di calciomercato, dei premi-partita ai giocatori più meritevoli, delle grandi feste celebrative per squadra e tifosi in scenari suggestivi come il Castello di Torre Alfina, all’epoca di sua proprietà. Era un uomo che vedeva lungo e sapeva bene come, dove e quando investire. Ha quasi sempre saputo dotarsi di collaboratori e dirigenti di spessore in una piazza, quella perugina, tutt’altro che facile, anzi appassionata e molto esigente, già nota al grande calcio per la stagione d’oro degli anni Settanta sotto la guida dell’indimenticato Franco D’Attoma, scomparso nel maggio 1991, pochi mesi prima dell’arrivo di Gaucci nel capoluogo umbro.
Molti sorrisero bonariamente quando questo giovane ex dirigente della Roma annunciò obiettivi ambiziosissimi in una piazza ormai da tempo bloccata nel “purgatorio” della Serie C. Nessuno avrebbe mai immaginato che soltanto quattro anni e mezzo più tardi, con Giovanni Galeone in panchina, il Perugia si sarebbe riaffacciato nel massimo campionato a quindici anni dall’ultima volta. In quella squadra c’erano Marco Negri, bomber ancora idolatrato dai tifosi, Massimiliano Allegri e due giovani che cominciavano a mettersi in mostra nelle file di una primavera fortissima, capace, di lì a poco, di vincere due scudetti consecutivi: Marco Materazzi e Gennaro Gattuso.
Da quel momento in poi, con la sola parentesi della retrocessione nel 1997, a Perugia ci fu spazio soltanto per le gioie. Nel corso degli anni approdarono in biancorosso giocatori semisconosciuti come Milan Rapajc, Hidetoshi Nakata, Ahn Jung-hwan, Zisis Vryzas, Traianos Dellas e Fabio Grosso che, scoperti e valorizzati nella fucina di Pian di Massiano, avremmo ben presto ammirato sui palcoscenici mondiali con le magliette delle rispettive nazionali. Alle tante giovani promesse, italiane e straniere, si affiancarono nel tempo giocatori già formati o d’esperienza come Sandro Tovalieri, Antonio Manicone, Giovanni Tedesco, Gianluca Petrachi, Andrea Mazzantini, Nicola Amoruso, Alessandro Calori, Zé Maria, Mauro Milanese, Fabian O’Neill, Fabio Bazzani, Fabrizio Miccoli, Dario Hubner, Franco Brienza ed altri ancora.
Oltre alle soddisfazioni per i risultati della squadra, in quegli anni i tifosi del Perugia poterono ammirare probabilmente la Serie A più bella e competitiva di sempre. Sul manto erboso del “Renato Curi” mossero le scarpette campioni del calibro di Roberto Baggio, Gabriel Batistuta, Paolo Maldini, Franco Baresi, Hernan Crespo, Francesco Totti, Zinedine Zidane, Alessandro Del Piero, Alessandro Nesta, Gianluigi Buffon, Fabio Cannavaro, Diego Simeone, Pavel Nedved, Filippo Inzaghi, Dejan Stankovic, Andriy Shevchenko, Andrea Pirlo, Clarence Seedorf e chissà quanti altri.
Non sapevamo – e forse nemmeno avremmo potuto rendercene conto – quanto avremmo rimpianto quell’epoca in futuro. Stavamo vivendo un sogno, per certi aspetti simile a quello dell’Atalanta dei giorni d’oggi, ma in un’epoca indubbiamente più serena per tutti e in un contesto locale che nulla o quasi aveva da invidiare – non solo nel calcio – alle piazze del Nord Italia.
In quegli anni, quella di Perugia era tornata ad essere una trasferta temuta da tutte le grandi squadre del nostro campionato. Caddero, trafitti dai grifoni, il Milan plurititolato di Carlo Ancelotti, l’Inter, la Roma e la Juventus che, come già accaduto nel 1976, perse un altro scudetto sul terreno del “Renato Curi”, battuta da un Perugia già salvo ma motivato con forza da Gaucci ad onorare fino all’ultimo il campionato. Un “affronto al potere” che, probabilmente, oggi nessuno avrebbe il coraggio di ripetere.
Andrea Fais – Agenzia Stampa Italia