fotooNell’occasione l’Ufficio stampa diocesano augura ai colleghi serene festività natalizie.

“È nato un bambino. Comprendiamo bene, in un tempo difficile come il nostro, cosa questo significhi nel contesto della crisi demografica e nel timore che la pandemia duri ancora”

«Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio» (Is 9,5). È in questo modo che il profeta Isaia riferisce la notizia della nascita di un figlio appartenente alla dinastia del re Davide. La gioia però, ancor prima che per la continuazione della corona, scaturisce dalla nascita di un bambino. Comprendiamo bene, in un tempo difficile come il nostro, cosa questo significhi. Nel contesto della crisi demografica in cui versa il nostro paese, nel timore che la pandemia duri ancora a lungo e ci blocchi nelle difficoltà e nelle paure, la nascita di un bambino è il segno della vita che continua, della speranza che rinasce. Il messaggio del Natale è, a guardar bene, di una disarmante semplicità: è nato un bambino. Lo capiscono le famiglie, che attorno alla culla possono riprendere a sorridere, contemplando il mistero della vita che continua. Ecco perché un bambino può venire alla luce in qualsiasi situazione: nei momenti di crisi, come il nostro, o nei luoghi meno adatti o impensabili. Anche negli scenari di guerra, o nei campi profughi, o in una favela, o in un piccolo villaggio di provincia, in Giudea, durante la dominazione romana: ogni nascita, come la nascita di Gesù, è la celebrazione di un dono che viene dato in qualsiasi condizione ci possiamo ritrovare.

Gioisce Gerusalemme. C’è un inno natalizio medievale, intitolato Puer natus, che inizia cantando non tanto la nascita di un principe, ma, in primo luogo, la nascita di un bambino: «Puer natus in Bethlehem, alleluia». Un bambino è nato a Betlemme, alleluia! Ma la nascita di quel bambino di Betlemme esprime molto più di quanto detto finora. L’inno continua infatti con le parole «Unde gaudet Jerusalem»: se un bambino è nato a Betlemme, non sono solo Giuseppe e Maria, i genitori, a gioire: grazie a quel bambino, «gioisce gerusalemme». Quella nascita è un segno per tutta la città santa, per l’intero popolo di Israele, per tutte le nazioni chiamate a salire al tempio ad adorare il Dio di Abramo. Per tale ragione san Gregorio Nazianzeno scriveva: «Celebra la Natività, grazie alla quale sei stato liberato dai legami di una nascita puramente umana, per rinascere a quella divina; onora la piccola Betlemme che ti ha ricondotto in paradiso, adora la mangiatoia» (Discorso 38,17).

In una mangiatoia. Cosa significa per noi contemplare oggi quella mangiatoia? In primo luogo, la tenerezza di Maria e di Giuseppe verso Gesù. Alla nascita di un bambino si accompagna sempre, per i genitori, l’impegno e la responsabilità della custodia di quella vita. Maria, si legge nel racconto di Luca, dopo aver partorito il suo figlio primogenito, «lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,7). Quanto scrive l’evangelista non deve necessariamente implicare che i genitori di Gesù non avessero pensato al parto imminente, e nemmeno che non ci fu ospitalità, a Betlemme, per quella giovane puerpera. Le case di quel tempo, molto semplici, avevano degli ambienti in muratura all’esterno, ma potevano anche sfruttare cavità naturali, grotte, che diventavano i vani più interni e più caldi, adatti per mettere al mondo Gesù. Quella mangiatoia era il luogo dove si trovavano gli animali, ma diventerà un segno più grande, l’unico segno che verrà dato dagli angeli ai pastori: «troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (Lc 2,12). Se questo dettaglio così umile, la mangiatoia, ha orientato un giorno i pastori, permettendo loro di entrare in una casa e adorare il Figlio di Dio, e così prendere parte così a una «gioia grande» (Lc 2,10), che cosa dice a noi, oggi, quel segno?

Nutrirsi di Cristo. Sin dall’antichità, e poi nel medioevo, la mangiatoia è stata vista non solo come il luogo dove si nutrivano gli animali, ma come il luogo da dove i credenti potevano nutrirsi di Cristo. Un santo monaco, Aelredo (di Rievaulx), scriveva così, ancora nel dodicesimo secolo: «La mangiatoia di Betlemme è l’altare in chiesa. Qui si nutrono le creature di Cristo. Qui, sotto le specie del pane e del vino, c’è il vero corpo e sangue di Cristo. In questo sacramento noi crediamo che c’è Cristo vero, ma avvolto in fasce, ossia invisibile. Non abbiamo nessun segno così grande ed evidente della natività di Cristo come il corpo che mangiamo e il sangue che beviamo ogni giorno accostandoci all’altare: ogni giorno vediamo immolarsi colui che una sola volta nacque per noi dalla Vergine Maria. Affrettiamoci dunque, fratelli, a questo presepe del Signore (Discorso secondo per il Natale). Sarà quello che poi scriverà anche san Francesco d’Assisi nella prima Ammonizione, collegando strettamente l’incarnazione all’eucaristia: «Ogni giorno il Figlio di Dio si umilia, come quando dalle sedi regale discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote» (FF 144).

Il presepe, segno inclusivo. «Hic iacet in praesepio, qui regnat sine termino». Prosegue in questo modo il canto Puer natus: «Colui che regna per sempre, giace in un presepio». Ecco perché, fratelli e sorelle, dobbiamo ancora andare a quel presepio, e adorare quella mangiatoia. Il presepe è un segno semplice, perché parla a tutti, ai bambini e agli adulti. E se è capace di comunicare il mistero dell’incarnazione ai bambini, allora a noi adulti viene chiesto di diventare – diceva Gesù – come loro, per poter entrare nel regno dei cieli (cf. Mt 18,3) e stupirci di quello che è accaduto una volta a Betlemme e accade ogni volta che celebriamo la memoria della cena del Signore. Il presepe è un segno inclusivo: nel presepe, come si vede bene dalla bella tradizione che continuamente lo aggiorna e vi aggiunge statuine, ci sono tutti; tutti possono accedere a quello spazio, per incontrare Gesù, nessuno è escluso.

Dio ha preso la carne umana. Il presepe, ancora, ci dice che possiamo stare, come mai era avvenuto prima, alla presenza di Dio. Il Dio lontano, che la fede di Israele ci ha insegnato a rispettare come “totalmente Altro”, si fa vicino tanto da poter essere preso in braccio. È quello che farà Simeone, quando accoglierà tra le sue braccia il bambino portato dalla madre e dal padre a Gerusalemme. Prima i pastori, poi i sapienti magi che vengono da lontano, e poi chissà quanti altri uomini e donne avranno potuto gioire in quel giorno, così come gioiamo oggi noi, nel sapere che Dio ha preso la carne umana, e in questa carne si lascia incontrare e accogliere tra le nostre braccia e ora, mentre tra poco celebreremo i riti eucaristici, anche nelle nostre mani.

Gualtiero Card. Bassetti

Arcivescovo di Perugia-Città della Pieve


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