In occasione della Giornata Mondiale del Malato, la voce degli operatori e dei sanitari è quella che riesce a raccontare al meglio la volontà di stabilire una relazione al di là della malattia e farsi carico, nel servizio, della sofferenza dell’altro.
(UNWEB) Assisi, - Mai come quest’anno la celebrazione della XXIX Giornata Mondiale del Malato, che ricorre l’11 febbraio 2021, in memoria della Beata Vergine Maria di Lourdes, diventa momento propizio per riservare una speciale attenzione alle persone malate e a coloro che le assistono e le curano, non solo nei luoghi come il Serafico, ma anche nelle famiglie dei pazienti e degli operatori. Quest’anno il comune pensiero va in particolare a quanti, in tutto il mondo, patiscono gli effetti di una pandemia dirompente e devastante che ha spazzato via le certezze su cui abbiamo fondato la nostra quotidianità, ridisegnando a volte il significato autentico e profondo della vita, della malattia stessa e purtroppo anche della morte.
L’emergenza ha imposto nuove regole, anche molto restrittive, per tutelare il bene primario della salute di tutti. In generale i malati, ma soprattutto i disabili gravi, si sono spesso trovati ulteriormente allontanati dai propri cari e da figure di prossimità, mentre il personale sanitario ha dovuto rivestire un duplice ruolo, quello cioè di esercitare la propria professione, ma anche di assistere e confortare oltre il proprio compito, per colmare il vuoto degli affetti lontani. Medici, infermieri, operatori sanitari e lo stesso personale dei servizi, della cucina e delle pulizie, non si sono sottratti e si sono prodigati per lenire sofferenze, per alleviare dolore e angoscia. Tutto ciò con grande dedizione e nell’anonimato. La pandemia, pure nella sua tragicità, ha toccato e scosso le corde più profonde della solidarietà, della fratellanza e dell’umanità. Curare e prendersi cura si sono fusi un’unica mission, riaffermando, nella molteplicità dei ruoli e delle competenze, la centralità della persona.
Papa Francesco, nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale del Malato, lo indica già dal primo paragrafo: “Davanti alla condizione di bisogno del fratello e della sorella, Gesù offre un modello di comportamento del tutto opposto all’ipocrisia. Propone di fermarsi, ascoltare, stabilire una relazione diretta e personale con l’altro, sentire empatia e commozione per lui o per lei, lasciarsi coinvolgere dalla sua sofferenza fino a farsene carico nel servizio” (cfr Lc 10,30-35).
Al Serafico, operatori e sanitari hanno assunto un ruolo chiave per i ragazzi disabili ospiti e le loro famiglie: “Tantissime sono le storie che potremmo citare, dalle caratteristiche molto simili, per la drammaticità e l’intensità dell’esperienza vissuta. Dal momento in cui abbiamo appreso i primi risultati di positività, lo scopo di ogni nostra giornata è stato quello di curare i ragazzi, di sconfiggere questo male invisibile e di proteggerli. Le vite di molti di noi sono cambiate, mettendo da parte le nostre famiglie e i nostri affetti, anche allontanandoci da loro, per dedicarci anima e corpo alle fragili vite che ci sono state affidate”, dichiara la Presidente Francesca Di Maolo.
Storie drammatiche caratterizzate da paura, impotenza e, a volte, frustrazione, ma anche dalla speranza e da un rinnovato senso della nostra missione: “Quando ci siamo trovati a combattere il virus all’interno del Serafico, ci siamo ritrovati immersi in un dolore vasto e allo stesso tempo intimo, “innocente” e puro. Tuttavia, siamo riusciti a condividere i nostri stati d’animo e le nostre emozioni ed è stato chiaro che anche nel dolore la vita è in grado di ritessere la sua trama con il filo della speranza e ci ha lasciato in dono una capacità di amare e di accompagnare l’altro che personalmente non avevo mai sperimentato prima. Per tutti noi - prosegue la Presidente - è stato scioccante vedere con quanta aggressività il virus colpisce le vite più fragili. Quando abbiamo perso uno dei nostri ragazzi, Antonio, che era stato abbandonato alla nascita dalla famiglia e nel tempo era diventato il figlio di tutti noi, è stato un grande trauma. Queste esperienze non solo ci ricordano la fragilità umana in tutte le sue molteplici forme, ma confermano che nel rapporto del prendersi cura non sperimentiamo solo un rapporto professionale, ma un’autentica relazione, dove ogni giorno rinnoviamo la nostra capacità di amare, di accogliere e di affidarci all’altro”.
La celebrazione della Giornata Mondiale del Malato è diventata per il Serafico l’occasione per raccogliere le testimonianze degli operatori e dei sanitari, punto di incontro e di sintesi tra pazienti e famiglie, tra la propria casa e il luogo di lavoro.
“In questo periodo di crisi - racconta Alberto, Fisioterapista - mentre molti aspetti della relazione venivano compromessi, altri si sono intensificati e approfonditi. Nel gruppo dove opero con bambini e ragazzi, così come con gli operatori, la familiarità, l’attesa, la gioia, il pensiero o la preoccupazione per un momento critico dell’uno o dell’altro si sono approfonditi e hanno nutrito le mie giornate. In tempi in cui non si sa come immaginare il futuro, i nostri ragazzi mi hanno tenuto vicino alla concretezza dell’oggi, all’essenzialità della vita nei suoi elementi più semplici. È sempre stimolante lasciarsi interrogare dalla gioia che esprimono, anche solo per il fatto di poter uscire a camminare e stare a contatto con la natura durante le nostre terapie”.
“Ho affrontato l’ingresso del virus al Serafico nei giorni successivi ad un ritiro spirituale che mi ero concessa - ricorda Suor Ornella Ciccone, Neurologa Pediatrica - quasi a dire che anche il Signore mi abbia preparata a tutto questo. Ho intravisto il bene anche in mezzo al Covid, tutti appassionatamente coinvolti nel venirne fuori insieme: medici, infermieri, operatori e personale di pulizia e di cucina. Tutti idealmente per mano in una catena, in una cordata in cui i ragazzi erano parte della cordata stessa, nel dare a noi la forza per poi diffonderla e condividerla gli uni con gli altri. Bastava un saluto proprio dei ragazzi che ci riconoscevano sotto le tute e dietro le mascherine e quel saluto era di stimolo e di slancio verso il comune obiettivo di uscirne insieme. Giorni difficili, in cui di fronte anche ad un forte colpo di tosse di un ragazzo, oltre alla riflessione sul cosa fare in termini di cura, subentrava anche la preghiera affinché tutto potesse andare per il meglio”.
“Il nostro esserci qui al Serafico - racconta Michele Tufo, educatore - nel restare accanto e nel curare i disabili gravi, rende tutto più vivo e ci consente di essere una garanzia per tutti coloro che hanno bisogno di noi, partendo dai più fragili, i sofferenti, i disorientati, fino a raggiungere i familiari, i colleghi di lavoro e gli amici. Abbiamo bisogno di ricevere e donare quella fiducia, che rende completa la nostra vita. L’esperienza del Covid ce lo sta insegnando più che mai, a volte nelle quarantene imposte a chi lo ha vissuto o accanto al letto di chi lo sta affrontando”.
“Esserci” e “stare” con il proprio vissuto (non solo come professionista che ha un determinato ruolo); fare emergere il “potere delle relazioni”, quale elemento curativo, per attraversare il dolore e recuperare la dignità della persona; “speranza” come atteggiamento di fiducia, emersa grazie ai gesti di presenza e vicinanza: sono solo alcune delle parole chiave e degli elementi nati da questa “raccolta” e scaturiti dal messaggio di papa Francesco e dalla riflessione che il Serafico ha compiuto in una giornata così importante.
“Il dibattito di questi giorni sulla priorità dei vaccini alle persone con disabilità e agli operatori che li hanno in cura è avvilente rispetto allo slancio raccolto nelle tante testimonianze e alla fragilità delle persone che ci sono state affidate. Dobbiamo custodire le vite più vulnerabili e dare loro voce perché al più presto ci siano risposte e azioni concrete e non avremo pace finché il vaccino non sarà assicurato a tutte le persone fragili”, conclude la Presidente.