(ASI) PERUGIA - Quando nel 1986 fu definitivamente raso al suolo ciò che restava del vecchio stabilimento della Perugina di Fontivegge, ormai dismesso dal 1965, la valorizzazione del patrimonio di archeologia industriale era ancora un concetto del tutto astratto in Umbria ed in buona parte della Penisola, al massimo limitato ad alcuni progetti finanziati da grandi investitori privati, come quello che ha riguardato il Lingotto di Torino tra la metà degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta.
Si è trattato chiaramente di un percorso culturale lento, che ha mutuato pratiche di recupero, conservazione o valorizzazione di superfici o infrastrutture dismesse, già emerse nell'Inghilterra dei primi anni Sessanta e in seguito diffusesi anche negli Stati Uniti, latitudini in cui la rivoluzione industriale aveva ormai compiuto oltre due secoli di storia e si apprestava a lasciare il posto ad una società massicciamente caratterizzata dai servizi e dall'informatica.
Nel nostro Paese, la percezione della politica, delle imprese, delle comunità e delle associazioni cittadine verso l'archeologia industriale cominciò probabilmente a cambiare in modo concreto soltanto intorno alla metà degli anni Novanta, a seguito dell'iscrizione nel Patrimonio UNESCO del Villaggio Crespi d'Adda, vera e propria città ideale del lavoro, gioiello di architettura industriale, sorta nella seconda metà dell'Ottocento nei pressi di Capriate San Gervasio, piccolo comune dell'Isola bergamasca.
Anche in questo caso è stata Milano ad anticipare il trend fra gli anni Ottanta e Novanta, progettando opere di rigenerazione come quelle che hanno coinvolto l'ex Lagomarsino, l'ex Carminati Toselli, oggi Fabbrica del Vapore, o l'ex Breda, oggi Spazio MIL. Negli ultimi tre lustri, in molti altri centri - piccoli e grandi - della Penisola, resi importanti dallo sviluppo industriale dei due secoli scorsi, le comunità locali hanno evidentemente reagito di fronte al rischio di smarrire per sempre una parte considerevole della propria identità cittadina nel mare di una globalizzazione senz'altro inevitabile ma indubbiamente cinica e impietosa.
Alla presenza di un vecchio stabilimento, infatti, si abbina quasi sempre la storia di un marchio, di un prodotto e di una particolare capacità manifatturiera che per decenni ha veicolato il nome di una città o di una località nel resto del Paese o addirittura nel resto del mondo. Soprattutto la provincia, dimensione spesso ignorata nel circuito dei grandi media nazionali, ha avuto non di rado un suo riscatto proprio grazie ai brand che ne hanno caratterizzato, in tutti i sensi, il marchio di fabbrica in epoca contemporanea: il tessile di Vicenza, le calzature di Vigevano, il pandoro di Verona, la carta di Fabriano, i tubi di Dalmine, il cioccolato di Perugia e tanti altri ancora.
Nel nostro Paese, per fortuna, non tutta la produzione storica è stata dismessa, anzi non mancano gli esempi di aziende che, malgrado la crisi, hanno saputo reinventarsi e rinnovarsi restando contemporaneamente radicate sul territorio originario e competitive sui nuovi scenari, penetrando con successo anche i mercati esteri. In molti altri casi, però, diverse realtà sono state rilevate da gruppi, italiani o stranieri, che ne hanno fortemente ridimensionato e parzialmente delocalizzato l'attività, frammentandone la filiera lungo le catene globali del valore.
Si è così sentito il bisogno di conservare pezzi del passato per raccontare una storia, informando il forestiero di ciò che un luogo è stato in grado di produrre per uno o due secoli, forse anche in reazione all'ingiusta vulgata che marchia spesso a fuoco l'Italia come meraviglioso museo a cielo aperto d'Europa, meta ideale di un eterno Grand Tour artistico e paesaggistico, ma poco incline all'impresa, alla tecnologia e all'innovazione.
Il Museo Statale del Tessile e dell'Industria di Augusta, in Germania, sorge oggi all'interno dello storico stabilimento della Augsburg Kammgarnspinnerei, fondata nel 1836 e chiusa fra il 2002 e il 2004. Inaugurato nel 2010, questo luogo non incarna semplicemente la conservazione di modelli e macchinari del passato, a mero scopo autocelebrativo. Si tratta, invece, di un percorso che mostra al visitatore anche gli sviluppi più recenti del settore, con una sezione specifica dedicata ai più piccoli. Un ulteriore iter hi-tech altamente innovativo si concentra interamente su nuove aree di applicazione: dall'abbigliamento intelligente sino ai muscoli artificiali e ai prodotti in carbonio.
Lasciare intatta un'antica canna fumaria, come avvenuto a Fontivegge in Piazza del Bacio o a San Marco fra i nuovi condomini sorti sulla superficie delle vecchie Fornaci, non è esattamente ciò che si intende per valorizzazione del patrimonio archeologico industriale. Qualcosa di più vicino al concetto è invece l'ex Centrale Elettrica di Via XIV Settembre, dove oggi sorge - ancora per pochi anni, visto il progetto della Cittadella Giudiziaria unica negli edifici di Via Fiorenzo di Lorenzo - la Sezione Penale del Tribunale di Perugia, sebbene la ridestinazione d'uso non colga affatto l'anima post-industriale del luogo. Oppure, l'ex Lanificio di Ponte Felcino.
Se non fosse intervenuto Aldo Rossi, oggi a Fontivegge avremmo ancora un'enorme area industriale abbandonata, senz'altro troppo grande per essere interamente rigenerata ma indubbiamente preziosa. Ormai, purtroppo, la frittata è stata fatta e non si può tornare indietro. Eppure, proprio laddove Rossi fu costretto, per assenza di fondi, a fermarsi, potrebbe sorgere uno spazio nuovo che riparta da quella canna fumaria, testimone intatto del primo Novecento, per riportare in città la storia del cioccolato e di Luisa Spagnoli, oggi sì celebrata da un bellissimo museo e un avvincente laboratorio artigianale ma in un'area - quella dello stabilimento industriale di San Sisto - evidentemente inadeguata ad attrarre ed accogliere turisti e visitatori.
Ovviamente sarebbero architetti, ingegneri e tecnici a dover affrontare la sfida, non certo facile, di progettare un nuovo edificio leggero, funzionale ed attrattivo, caratterizzato da uno stile "intermedio", compatibile sia con l'assetto urbanistico del quartiere che con lo stile di Piazza del Bacio, due "ambienti" profondamente antitetici fra loro. Prima o poi se ne dovrà parlare perché, al netto del Piano Periferie, Agenda Urbana e di tutti gli interventi altamente innovativi già previsti in zona, la partita per il futuro di Fontivegge si giocherà anche sul terreno del passato.
Foto di timothy green da Pixabay