mannarino1(ASI) Terni. Partenza alle 18 da Piazzale del Bove, in dieci (sei ragazze e quattro ragazzi) spartiti in due macchine.
Fa caldo, si sta stretti e la prospettiva di arrivare a Terni scava in noi maschietti un po' di ansia, con disappunto delle donne, ma la vista dei campi ocra di tabacco che ci sfrecciano accanto rasserena gli animi.


C'è Mannarino in Piazza Europa, ultima data del tour Corde, ingresso gratuito.
Quando arriviamo il sole non è ancora calato del tutto, e torna ad assalirci un po' di quell'astio da perugino sfegatato in trasferta tra le Fiere, ma che ci vuoi fa?, mica vai dal gatto a chiedergli perché disprezza tanto il topo.
Decidiamo di aver abbastanza tempo e ci incamminiamo lungo il corso, sbafandoci qualche pizzetta seduti per terra, sui sanpietrini o su panchine di roccia proprio in mezzo al viale. Le ragazze sembrano quasi un quadro di Renoir, così prese dal pasto e così belle nel loro essere donne. Panchine del genere (intonse, linde, vere) a Perugia sono un'eccezione.
Ci avviamo verso la piazza quando ormai è scesa la notte, con lo stomaco pieno e i cuori in fibrillazione. Nuvole di smog coprono le poche stelle rimaste e l'aria è calda, umida, pesante, che appiccica le mutande alle natiche e i capelli delle signorine sulle loro nuche bronzee.
Famigliole con bambini e qualche volto curioso si accomodano sul basso muretto che cinge il bordo della piazza quasi a spartire il pubblico della piazza dai reietti sellati che sfrecciano ciclomuniti sulla strada sottostante.
I più giovani stanno al centro.
Non è che lo capisci solo dagli sbuffi di fumo che salgono verso il cielo corrotto o dall'odore acre di birra e chissà cos'altro mescolati come pozione in quest'aria già di per sé pesante. No. Non è una cosa che vedi. La percepisci, piuttosto. Una sorta di febbre che eccitata scivola tra le gambe nude della folla, di fronte al palco illuminato, una magia che pochi, superati i 30 anni possono ricordare veramente. Roba che non ti spieghi: quei cori da stadio fuoriluogo e gli urlacci a bruciapelo, e tutti che ridono, quelle rade teste calde che si allontanano spaesate e claudicanti dalla mischie e rimane la vaga sensazione che momenti come questi è meglio goderseli prima che il tempo ne cancelli la memoria. Sorridono tutti.
Ore nove e mezzo, entra un tipo, camicia bianca jeans e ricci diabolici sparati al vento. Domenico Imperato. Viene da chiedersi se faccia uso di shampoo alla caffeina. Non è una faccia nota, ma qualcuno dal pubblico lo incoraggia e il ragazzo prende fiato e sussurra dapprima un paio di poesie, accompagnandosi con la chitarra, poi si lascia andare e chiude con una gran ballata. La folla, al centro, applaude parecchio quando il ragazzo, emozionato, lascia il palco.
Ma si sente dai cori che sono tutti lì per Mannarino.
Alle dieci spaccate, l'orchestra fuoriesce dal drappo rosso che incornicia il palco: grottesco, ha un che di primordiale e vitale: contrabbasso, chitarra, un ragazzotto tutto ossa alla batteria e uno che sembra il suo opposto ad uno strumento che non saprei descrivere. E poi questa meraviglia di ragazza, ricorda vagamente Cleopatra, o perlomeno l'idea che ho io di Cleopatra: lunghi capelli castani raccolti in una fascia, pelle sfumata di miele e occhi azzurri (o verdi? sono troppo lontano). E' alta e affusolata come un bel ramo di olivo, e quasi ne percepisco l'odore. Imbraccia un tamburello su una mano ed un violino sull'altra. Dio fa che suoni bene.
E poi entra lui, ed è il classico moderno tripudio di iPhone che brillano e flash di fotocamere al cielo e urla e altri cori da stadio. Alessandro Mannarino, classe 1979, cantautore vecchio stampo, un poeta, chitarra alla mano, tre dischi alle spalle e un esercito di fan da tutta Italia. Sorride, siede su una sedia al microfono e scruta il pubblico. O forse sta scrutando qualcosa in mezzo al pubblico, quella strana febbre che gli ricorda qualche antico tempo andato. Ha la camicia sbottonata e un panama nero calato sulla folta chioma bruna.
Inizia a cantare, ed è una nave in mezzo alla tempesta: spiega le vele e raccoglie vento a poppa, si spinge a largo sfidando la bufera, con un Jazz manouche che ci trascina a fondo (Osso di seppia), quindi le chiude di scatto, con un pezzo più soft, e viene travolto lui stesso dall'onda che prima cavalcava. E poi di nuovo: scatena danze con una taranta, qualche spinta di troppo ma niente che non finisca poi con un sorriso, e spezza una grossa onda, sale all'apice, con quella sua voce rude e burina e allo stesso tempo dolce, ti tiene sospeso su un filo di seta, narrandoti storie assurde di amori impossibili (Maddalena) con quel violino che striscia un'ultima nota altissima, e poi giù di nuovo, riprende un ritmo pi lento e poi lo abbandona per trascinarti in un tango, ma con quelle sfumature di osteria e bucatini all'amatriciana che Alessandro Mannarino, romano di Roma, nato e cresciuto nella capitale, non smetterà mai di portarsi dietro. Una benedizione. Gli occhi strabuzzano dalle orbite quando cerca una nota profonda, le mani si muovono esperte sulla chitarra e non fai caso al testo, ma quello ti entra comunque dentro, ti trascina nel deserto, in un porto abbandonato, nel fondo del mare e in cima ad una montagna, e puoi sentire quello che lui sente: la musica che scorre come vino nelle taverne, e l'orchestra dietro (o forse è dentro di lui) che spinge e lo incalza e poi lo trattiene, quasi a bacchettarlo per un eccesso di zelo, ma poi lo spinge di nuovo tra la folla con un buffetto amoroso.
E il pubblico vive sotto di lui, sotto queste stelle nascoste di un'altra estate che muore.
Sparisce, all'improvviso, correndo via da scalette laterali.
Qualcuno mormora tradito, altri lo implorano. La banda saluta e va via.
Passano i minuti.
Risputato fuori dalla tempesta, Mannarino sale di nuovo sul palco, orchestra al seguito, e le ultime tre canzoni (Bar della Rabbia, Statte Zitta e Scetate Vajò) lanciano il pubblico in balli sfrenati: i giovani se la cavano alla grande, ma la vera gioia sono quelli intorno, gli esclusi, che si lasciano andare anche loro, arrugginiti ma vivi, battendo le mani a tempo e tentando i più coraggiosi qualche passo di danza.
Finisce tutto così come è iniziato, con ultimi echi di cori che rifiutano di morire e il rumore dei cocci calpestati. Il comune aveva emanato l'ordinanza antivetro, ma, si sa, certe cose è sempre difficile controllarle. I tanti superstiti della tempesta, a vele strappate, remano eccitati verso l'uscita. Seguo il gruppo dei miei compari controcorrente, in direzione del corso, alla gelateria di fianco al giornalaio. Un addetto alla sicurezza, tuta arancione catarifrangente e lunghe basette sulle guance, ci sorride fischiettando timidamente "Mary Lou" da un angolo della bocca.
Francesco Fontani


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